Affrontare la Sclerosi Multipla con la Mindfulness

Michela affronta ogni giorno la sclerosi multipla. Chi vive una malattia cronica sa quanto può essere forte l’identificazione con un corpo percepito come “malato” verso il quale prova costantemente sentimenti di repulsione, rabbia e inimicizia. Liberarsi dall’identificazione con le emozioni reattive permette di scoprire le risorse del corpo seppur con una malattia disabilitante e, indirettamente ma più stabilmente, che la nostra identità è qualcosa di più indistinto. Validi studi scientifici oggi ci dimostrano che gli interventi basati sulla mindfulness sono utili per diminuire la sintomatologia ansioso-depressiva reattiva nella sclerosi multipla. Questo per Michela è stato l’esito del percorso di riabilitazione con la pratica della Mindfulness.

“IL MIO NUOVO AMICO!”*

Mi chiamo Michela, voglio raccontarvi la mia esperienza di vita, del mio incontro, della conoscenza e dell’AMICIZIA* con il mio nuovo amico, il mio fisico.

Non ho mai capito il motivo ma, da quando ho memoria, ho sempre avuto un pessimo rapporto con il mio fisico, non mi ci sono mai riconosciuta. Il pensiero costante è sempre stato di volermene distinguere, in qualche modo: il mio IO*, la vera Michela, era un essere vivente distinto ed autonomo, DIVERSO*.

Non erano i soliti “complessi” che le ragazzine adolescenti creano perché non si piacciono, perché troppo magre o troppo grasse: semplicemente, IO MICHELA* mi vivevo come una persona dentro un corpo rispetto al quale non riconoscevo alcuna appartenenza, era solo la macchina con la quale mi era concesso godermi le fantastiche esperienze della vita terrena.

Nell’estate del 2004, in vacanza, improvvisamente la mia “macchina” comincia ad avere qualche disturbo, formicolii strani ed inspiegabili compaiono ai piedi, poi alle gambe e poi, tutto si tramuta in vero e proprio senso di rigidità che rende estremamente faticosa la camminata. Chiedo al mio amico Paolo (osteopata) se può aiutarmi a far passare questo “fastidio”. Così, pur non riuscendo a trovare una spiegazione plausibile, dopo qualche seduta, tutto passa e la mia vita riprende il suo corso. Esame di stato, convivenza, amici, lavoro; poi, finalmente, il corso di volo in parapendio (dopo tanti anni di sogni ad occhi aperti ed attese) ed il brevetto a novembre del 2005. Tutto è quasi perfetto, i giorni di vita passano, i sogni lavorativi e, non, si realizzano dopo tante fatiche e, a rendere ancora più speciale la mia vita, ci sono i miei amici, il mio compagno, la mia famiglia.

Sono tutti al mio fianco, non c’è giorno in cui non senta la presenza delle persone che amo.

A settembre 2006, la mia “macchina”, ricomincia a manifestare quello strano disturbo, formicolio alle mani, a tutta la parte sinistra del corpo, al braccio sinistro, ma con il mio solito ottimismo/concretezza ho pensato: “anche questa volta andrà via, non serve sprecare tempo a cercare le cause e le spiegazioni mediche”. Purtroppo, due mesi dopo, la situazione peggiora: non riesco più a tenere in mano nulla senza farla cadere, il formicolio alle mani aumenta e non riesco più a scrivere al computer.

Sono tornata a cercare aiuto dal mio amico osteopata che, con l’aria preoccupata di chi comincia a nutrire sospetti su quale possa essere la natura di quei sintomi “anomali”, mi consiglia di rivolgermi al mio medico curante per fare degli accertamenti. Da quel momento, nel giro di un mese e due esami ben mirati a cercare le cause, il 18 dicembre 2006 arriva la diagnosi di Sclerosi Multipla. La mia vita, faticosa ma molto piena, divertente e speciale viene letteralmente travolta da uno tsunami la cui portata, fatico ancora oggi a definire esattamente.

Quando ti piomba addosso una diagnosi di malattia degenerativa non curabile, lo tsunami che ti travolge ti lascia stordito e confuso, non sai cosa e come fare. Premetto che non ho MAI considerato la possibilità di “farla finita” perché ho sempre pensato che la vita sia un dono straordinario e, per rispetto di tutte quelle persone che non hanno avuto possibilità di scelta e che oggi non ci sono più, questa soluzione drastica non si può e non si deve prendere in considerazione.

Quindi, che fare? Mi rialzo e comincio a seguire il mio istinto perché, in quel momento, non ho il supporto della mia parte razionale ma so anche che non voglio e non posso mollare, non ho alternative. Cerco di proteggere le persone che amo (come farebbe ognuno di noi) e penso che, l’unico modo sia tenerli a guardare da lontano, impedirgli di essere pienamente consapevoli di questa nuova esperienza di vita.

Le prime parole dei medici sono di sostegno psicologico come è inevitabile e giusto che sia: mi dicono che con le terapie odierne si può “tranquillamente” proseguire la propria vita.

Così, io vado avanti, vivo giorno per giorno “uscendo dal mio corpo”, me ne allontano, provo solo rabbia nei suoi confronti come se fosse colpa sua per tutto quello che mi è accaduto, è lui che ha questo problema, io sono solo rinchiusa qui dentro per sbaglio!

Nel frattempo, i giorni passano e comincio a dare anche il nome di “Palmira” alla malattia, per cominciare a fare conoscenza (in fin dei conti, visto che sarebbe stata una convivenza forzata, tanto valeva presentarsi!).

Però è una convivenza superficiale, non mi faccio domande né mi preoccupo di prendermi cura della “macchina rotta”, non ci sono alternative (!).

Dal giorno della diagnosi, continuo a vivere con la sensazione e l’errata consapevolezza che, presto o tardi, la “macchina” si fermerà, ed io con lei, così l’originaria sensazione di essere una persona diversa e lontana dal proprio fisico si acuisce più che mai, cresce la sensazione di essere rinchiusa in un mezzo difettoso da cui non posso uscire, sogno ad occhi aperti che, prima o poi, apriranno un negozio di ricambi dove potrò comprare i pezzi da sostituire!

Nel frattempo gli anni passano, le difficoltà aumentano, soprattutto la stanchezza cronica (cosiddetta invalidità invisibile!), la difficoltà di stare in equilibrio in situazioni di terreno non regolare, l’intolleranza al caldo e la sensazione di rigidità che questo comporta.

Questo aumenta, in modo inesorabile, la grande sfiducia che nutro verso il mio fisico, la sensazione di non riuscire più a fare quello che facevo prima, di non riuscire a correre, di non riuscire più a volare in parapendio per le difficoltà a decollare (in quella fase, le gambe e tutto il fisico deve essere reattivo, stabile e pronto a correre), soprattutto nella stagione calda.

Cresce l’ansia e cresce, di pari passo in modo esponenziale, la sfiducia e la sensazione di prigionia, la voglia di separarsi da questo corpo che, anche se lentamente, sta perdendo funzionalità.

Un giorno, parlando delle mie ansie e sfiducie mi viene consigliato di “provare” la mindfulness. L’idea mi piace, nonostante non sia proprio consapevole di cosa si tratti e se questo percorso suggerito mi possa essere d’aiuto, decido di tentare anche quella strada, perché la mia regola di vita è “non mollare”. Contatto, grazie ad un’infermiera dell’ospedale dove faccio terapia, il dr. Scavelli: facciamo un primo incontro per conoscerci e per consentirgli di conoscere le mie esigenze e le aspettative dal corso; gli spiego in “due parole” qual era il motivo che mi aveva spinta a intraprendere quel percorso e gli dico: “ho bisogno di gestire le mie ansie da decollo!”.

Cominciamo questa fantastica esperienza di comunicazione, condivisione e, in questo contesto, il dr. Scavelli, cerca di insegnarmi l’arte della meditazione cominciando dall’insegnarmi a riconoscere e distinguere i pensieri, le emozioni e le sensazioni che il fisico prova. Mi insegna a prendere consapevolezza del mio fisico, ad ascoltarlo.

Mi piace questa esperienza, sono tutte nozioni nuove e sconosciute, provo a fare gli esercizi a casa e, pian piano, realizzo che IO* – Michela, ho cominciato ad “ascoltare” il fisico; da lì il passo è breve, per cominciare a concepire il fisico, quella macchina “rotta”, come un amico da ascoltare, comprendere, sostenere e dimostrargli anche amore prendendosene cura.

Ho avuto la fortuna di incontrare persone speciali che ancora oggi mi accompagnano nel percorso di vita, mi sostengono ed alle quali cerco, tutti i giorni, di trasmettere l’amore che provo e la riconoscenza per l’amore e la fiducia che mi vengono donati.

E così prendo consapevolezza che quella “vecchia macchina” mal funzionante, della quale mi sento prigioniera e dalla quale desidero scappare, in realtà mi sta dimostrando un enorme atto di fedeltà e amicizia; è il mio migliore amico da ben 46 anni, un amico che è sempre stato al mio fianco, in silenzio, ma sempre presente e pronto a svolgere il proprio lavoro, a realizzare i miei desideri. Un amico che ha solo bisogno di essere compreso, rispettato ma soprattutto accettato per quello che era, è e che sarà, come nei più solidi legami di amicizia.

Mi sono sempre ritenuta una buona amica, anche se un po’ troppo chiacchierona, ho sempre cercato di fare del mio meglio per trasmettere il mio amore ed essere presente per le persone che rendono speciale la mia vita, ma non mi sono resa conto che stavo ignorando il primo amico speciale che, nonostante a volte lo maltratti, continua a dimostrarmi fedeltà e che aspetta solo che riconosca ed accetti il suo “diverso” modo di funzionare.

Il mio percorso nel mondo della meditazione è appena cominciato, devo scoprire ed imparare un sacco di cose, questo è un nuovo inizio, un nuovo percorso di vita e, questa volta, scelgo come compagno di viaggio il mio “nuovo” amico.

Sono consapevole che, col passare del tempo, la malattia potrebbe (il condizionale è d’obbligo) progredire, le condizioni del mio fisico potrebbero peggiorare, ma sono altrettanto consapevole che sono molto fortunata, perché oggi, posso ancora fare ciò che desidero anche se con fatica.

Ho scritto queste mille parole non solo per raccontare la mia esperienza ma anche perché spero di essere d’aiuto a chi, come me, “diversamente fortunata”, possa riconoscere le stesse paure, ansie ed emozioni e voglia valutare di provare a vivere l’esperienza della meditazione quale percorso di vera conoscenza come la sto vivendo io (o anche in modo diverso e migliore), per aiutarsi a ricominciare da capo questo difficile, ma bellissimo, rapporto di convivenza con un fisico che, il giorno della diagnosi, ha scoperto essere “diverso” da ciò che ci si aspettava e/o sperava che fosse; un fisico che è “soltanto malato”.

*il grassetto è dell’autrice